APPELLO PER IL RIPRISTINO DELLA NORMALITA’ COSTITUZIONALE

Lettera aperta al Presidente del Consiglio
Caro Presidente, Collega, siamo un gruppo di professionisti del diritto, cioè di “quelle sagge restrizioni che rendono liberi”. Non può sfuggirci che le restrizioni delle libertà fondamentali messe in campo dal Governo centrale e da enti locali per fronteggiare l’emergenza Covid-19 generano gravi dubbi di costituzionalità e rappresentano un pericoloso precedente per lo Stato di diritto. Non è qui in discussione se tali provvedimenti fossero materialmente giustificati – e siano stati supportati (e sopportati) – dalla necessità di ridurre la curva dei contagi. Ciò che qui preme rilevare, come sarà illustrato in questa lettera, è che:

– primo, se non sappiamo quando si potrà tornare alla “normalità” delle nostre vite (ammesso che ne esista una), è fondamentale – ed è possibile – ritornare al più presto a una normalità costituzionale;

– secondo, se i provvedimenti gravemente restrittivi della libertà personale (e altri diritti costituzionali) sono stati accettati di buon grado – insieme con la compressione delle attività economiche e del reddito – essenzialmente dalla totalità della popolazione italiana, lo è stato in virtù di un ‘patto sociale’, che a fronte del vincolo di solidarietà e della sostanziale delega ai cittadini di buona parte della tutela della salute pubblica comportava che lo Stato “facesse in pieno la sua parte” nell’organizzare, allocare e dispiegare efficacemente le risorse necessarie (test, dispositivi di protezione, accesso alle terapie, attrezzature mediche, etc.). È evidente che questo non è pienamente avvenuto né prima né durante la Fase 1, ed è dunque fondamentale che avvenga in pieno nella Fase 2 e in quelle che seguiranno;

– terzo, vista l’attuazione spesso aggressiva dei provvedimenti restrittivi delle libertà costituzionali e l’uso in corso e prospettico di meccanismi di sorveglianza, è altrettanto fondamentale che questi siano attuati nel fermo rispetto dei diritti della persona e del principio di proporzionalità;

– quarto, è inaccettabile che la giurisdizione sia stata di fatto sospesa nella Fase 1, come se non fosse un’attività essenziale al pari almeno delle tabaccherie. Questo non dovrà più avvenire. In questo, come in altri ambiti, si può prendere esempio da altri Paesi di risalente tradizione giuridica; e

– quinto, data l’importanza che in una democrazia liberale rivestono gli organi di informazione e la pubblica opinione, non è tollerabile che la comunicazione di piani, studi e misure di siffatta rilevanza sia rimessa a indiscrezioni, conferenze stampa o dirette Facebook senza contraddittorio, il dibattito sia riservato a esperti o si svolga al riparo dallo scrutinio pubblico e non sia possibile porre domande pubbliche ai decisori. Lo Stato deve rendere conto (the State must be held accountable) e, soprattutto in questa emergenza, garantire piena trasparenza, anche per costruire o mantenere quella fiducia nello Stato e nel Governo che è presupposto essenziale per l’efficace funzionamento di qualsivoglia misura.

Ripristinare le guarentigie costituzionali
È un fatto che le misure (centrali e locali) introdotte per fare fronte all’emergenza Covid-19 ledono fino quasi ad annullare le libertà e i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, incluse la libertà di circolazione (Art. 16), la libertà di riunione (Art. 17), il diritto di professare la propria fede religiosa nei luoghi di culto (Art. 19), il diritto allo studio (Artt. 33-34), la libertà di iniziativa economica e di utilizzo della proprietà privata (Artt. 41-42), financo la libertà di espressione del pensiero (Art.21) e soprattutto la libertà personale (Art. 13) e i diritti inalienabili della persona (Art. 2 e CEDU).
Non si intende qui sottovalutare la gravità della pandemia e l’esigenza di agire con rapidità ed efficacia per contrastarla, e del resto misure di c.d. lockdown sono state introdotte in una pluralità di Paesi. Né tanto meno si ignora che alcune di queste libertà (come quella di circolazione e soggiorno) possono essere limitate “per motivi di sanità o di sicurezza” (ancorché dalla legge in via generale e senza che queste possano costituire un “trattamento sanitario obbligatorio”, a sua volta strettamente limitato dalla riserva di legge e di giurisdizione).
Ma non è vezzo formalista ricordare che non si possono trattare le guarentigie costituzionali come un inutile orpello – anche perché la crisi del coronavirus sarà lunga, a questa potranno seguirne altre, e una volta creato un precedente può nascere la tentazione di non tornare indietro (come già osservava l’Economist qualche settimana fa). È proprio in crisi come questa che vanno salvaguardati i nostri valori fondamentali (come ricordava la Presidente della Commissione Europea il 31 marzo scorso) e le limitazioni che si rendono necessarie devono rispettare i principi di adeguatezza e proporzionalità (come ricordava l’Office of the Commissioner for Human Rights dell’ONU il 6 marzo scorso).
Viene in rilievo, per un verso, la riserva di legge prevista dalla Costituzione per introdurre limitazioni (anzi, per la libertà personale la doppia riserva, di legge e giurisdizione), per altro verso l’assenza di una previsione costituzionale che consenta di limitare il diritto di riunirsi in privato o di impedire l’uscita dal proprio domicilio per ragioni sanitarie, e per altro verso ancora l’effetto combinato di tutte le limitazioni introdotte contestualmente. E viene in rilievo la gerarchia delle fonti del diritto, che non può sovvertirsi nel nostro ordinamento. E invece è stata sovvertita, come si dirà ora.
Il Governo ha dichiarato lo “stato di emergenza”, “in conseguenza del rischio sanitario” connesso con l’insorgenza del coronavirus, con una delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020.
La nostra Costituzione non conosce alcuno “stato di emergenza”, prevedendo solo lo “stato di guerra” (che ex Art. 78 Cost. va deliberato dal Parlamento e dichiarato dal Presidente della Repubblica).
Infatti la delibera del Consiglio dei Ministri invoca una legge ordinaria, segnatamente gli artt. 7 e 24 del D. Lgs. 2/1/2018 n. 1 (codice della protezione civile). Ma questa legge, per un verso, non contempla il caso di pandemie e, per altro verso, consente di emanare ordinanze di protezione civile in ambiti del tutto diversi da quelli oggetto delle misure qui in discussione (e comunque “nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e dell’Unione Europea”) – dunque senza autorizzare chicchessia a comprimere libertà costituzionali che solo la legge (e in casi limitati) può comprimere.
Il Governo si è anche appoggiato alla pronuncia dell’OMS per giustificare lo “stato di emergenza”.
Sta di fatto che lo stato di emergenza è stato dichiarato unicamente dall’organo esecutivo, senza alcun vaglio parlamentare e in un vuoto costituzionale. Per fare un esempio, la Francia ha dichiarato lo stato di emergenza il 20 marzo scorso con una legge approvata da entrambi i rami del Parlamento. E del resto il 31 gennaio c’era tutto il tempo, prima che si manifestassero tre settimane dopo i primi casi di trasmissione del virus, per fare un passaggio parlamentare anche in Italia. Il Governo si è invece limitato a emanare un comunicato stampa con cui informava di avere deliberato lo stato di emergenza per sei mesi, “come previsto dalla normativa vigente” (quale?), “al fine di consentire l’emanazione
delle necessarie ordinanze di Protezione Civile” (cui certamente non è consentito di incidere sulle libertà costituzionali).
Sarebbe dunque bene, in primo luogo, intervenire eventualmente con norme di rango costituzionale per disciplinare situazioni analoghe a quella in corso, soprattutto al fine di fissare i limiti, anche rispetto ai diritti della persona, che l’azione di governo dovrà rispettare con percorsi parlamentari obbligati – salvi i poteri della Protezione Civile. Tale riforma costituzionale, come ben noto, sarebbe necessaria pure per l’utilizzo massiccio del DPCM, giacché non è previsto in Costituzione che i poteri di cui all’Art.77 siano delegabili al Presidente del Consiglio che resta un primus inter pares.
Dopo le prime ordinanze di protezione civile ai primi di febbraio sul coordinamento degli interventi necessari a fronteggiare l’emergenza, quali il controllo negli aeroporti e il rientro di italiani all’estero, a seguito della scoperta di contagi a Codogno il 23 febbraio il Consiglio dei Ministri approvava un decreto-legge con cui si autorizzavano le “autorità competenti” (quali?) ad adottare “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”, tra cui il divieto di allontanamento o accesso alle aree interessate (c.d. “zone rosse”), la chiusura di scuole e attività commerciali in dette zone, e così via (come è ampiamente noto).
Si noti che il decreto-legge, per un verso, introduceva un divieto di “ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato” (di dubbia costituzionalità) e, per altro verso, non conteneva misure restrittive della libertà personale salvo la quarantena obbligatoria o fiduciaria per chi aveva avuto contatti con contagiati o proveniva da zone a rischio (identico contenuto aveva il DPCM in pari data). Tuttavia il decreto-legge autorizzava le “autorità competenti” ad adottare “ulteriori” (imprecisate) “misure di contenimento e gestione dell’emergenza” – e demandava ad altri soggetti, tra cui i Presidenti delle Regioni, l’adozione delle misure (così tra l’altro, complicando la catena di comando e aprendo la via a una proliferazione di atti privi di forza di legge, talora in contrasto tra loro, limitativi dei diritti costituzionalmente garantiti).
Non a caso prendeva vita una serie di provvedimenti di rango amministrativo che, anche eccedendo l’ambito del decreto-legge, restringevano sempre più la libertà personale (ad esempio, l’ordinanza del Ministro della Salute del 20 marzo che vietava l’accesso alle aree gioco e alle zone verdi e vietava attività all’aperto, l’ordinanza dei Ministri della Salute e dell’Interno del 22 marzo che “bloccava” le persone nella dimora anche temporanea in cui si trovavano) senza alcuna copertura legislativa fino al nuovo decreto-legge del 25 marzo. Quest’ultimo si faceva scudo dell’Articolo 16 della Costituzione (“che consente limitazioni della libertà di circolazione per ragioni sanitarie”) per contemplare anche “limitazioni alla possibilità di allontanarsi dalla propria residenza, domicilio o dimora”, ovvero limitazioni alla libertà personale, che è ben diversa dalla libertà di circolazione, come già insegnavano i grandi costituzionalisti, da Mortati a Vassalli, sulla scorta del dibattito in Assemblea Costituente.
Limitazioni della libertà peraltro eseguite con dispiego di mezzi e risorse – di cui diremo oltre – vistosamente sproporzionate rispetto all’obiettivo (si pensi, tra i tanti, all’inseguimento di un runner con drone e poliziotti o alla signora multata perché sedeva – da sola – su panchina a 200 metri da casa).
Eppure l’Articolo 13 Cost. non ammette “forma alcuna di detenzione” né “qualsiasi altra restrizione” della (“inviolabile”) libertà personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Il Governo ha più volte giustificato le restrizioni alle libertà personali con la necessità di reprimere i comportamenti quali quelli del “weekend del 7 marzo” che vide i Navigli o le piste di sci affollate.
Ora, a parte che non è mai stato dimostrato un link epidemiologico tra quei comportamenti e i contagi riscontrati nelle settimane successive (link sempre più tenue, a due mesi di distanza), vi è da chiedersi se non si poteva conseguire un risultato analogo o migliore di quello raggiunto nella curva dei contagi senza ricorrere a un sostanziale annullamento della libertà personale, come è stato fatto in altri Paesi -in primis, la Germania- e di questo diremo oltre.
Ciò che si intende evidenziare non è solo il fastidioso atteggiamento paternalistico e colpevolizzante rispetto a una popolazione che ha mostrato un sostanziale senso di responsabilità ma è il rischio che la restrizione dei diritti della persona possa creare un pericoloso precedente, che un futuro governo magari di orientamento politico diverso- potrebbe sfruttare, magari in una crisi legata alla sicurezza (si pensi al cyberwarfare o al terrorismo), per incidere pesantemente sulle libertà costituzionali (si pensi alla manifestazione del pensiero, alla libertà di riunione o alla libertà religiosa) senza vaglio parlamentare e senza copertura costituzionale. Si rende dunque necessario tornare alla normalità costituzionale, sin dalla Fase 2 (anche in vista di possibili, future “emergenze”).

2. Lo Stato faccia in pieno la sua parte
Il lockdown – con le correlate restrizioni delle libertà costituzionali – non sopprime di per sé il virus. Il confinamento in casa:

– serve a “guadagnare tempo”: se grazie ad esso la curva dei contagi tende verso lo zero, si allevia la pressione sulle strutture sanitarie e si possono apprestare misure mirate ai nuovi casi (test, terapie sui positivi, tracciamento dei contatti, isolamento) tese a evitare altri lockdown;

– e, a ben vedere, rappresenta (di fatto) una colossale delega alla popolazione (di buona parte) della tutela della salute pubblica.
In buona sostanza, le restrizioni alle libertà e ai diritti costituzionali sono complementari all’opera sanitaria delle autorità nella fase acuta della crisi. Si può dire che sono state accettate dai cittadini (e da chi cittadino non è), che hanno di buon grado effettivamente rinunciato alla libertà personale, in virtù di una sorta di ‘patto sociale’ che comportava, a fronte di tale sacrificio e rinunzia, che le autorità facessero in pieno la loro parte nell’organizzazione, allocazione ed efficace utilizzo delle risorse necessarie a individuare, isolare e curare subito (per quanto possibile) i contagiati, limitare i nuovi contagi e i decessi, proteggere il personale sanitario e il resto della popolazione, rafforzare i presidi territoriali e le strutture ospedaliere.
È evidente che questo non è avvenuto (quanto meno non in maniera soddisfacente) nella Fase 1.
I dispositivi di protezione individuale (a partire dalle ‘mascherine’) non sono stati prodotti e distribuiti in quantità sufficiente, si sono presto resi introvabili e non sono stati assicurati neanche al personale sanitario. I c.d. tamponi sono stati effettuati in maniera eccessivamente selettiva e tardivamente: abbondano i casi in cui il tampone è stato negato in presenza di sintomi conclamati a persone che venivano prese in carico dalla sanità pubblica solo in caso di crisi respiratoria (perciò tardi). La gestione delle RSA, ovvero delle persone più vulnerabili, è stata catastrofica.
La necessaria separazione delle strutture di soccorso e ricovero dedicate ai pazienti Covid-19 (o sospetti tali) e quelle riservate agli altri non è stata realizzata ovunque. Ci si è concentrati sull’aumento dei posti di terapia intensiva, rispetto a cui si è conseguito un risultato importante, ma a scapito degli altri. Il numero dei decessi è cinque volte superiore a quello della Germania (che ha una popolazione ben maggiore).
Non si vuole qui sminuire la complessità della crisi pandemica e ignorare le difficoltà di gestire una fase convulsa. Possono avere concorso altri fattori, vi sono altri Paesi (come la Francia, la Spagna, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti) che hanno reagito altrettanto o più tardivamente, ma resta il fatto che, nelle sei settimane trascorse dalle notizie certe sul nuovo coronavirus in Asia e i primi casi di community transmission in Italia, non ci si è preparati a sufficienza, né sono state poste in essere tutte le azioni necessarie nei due mesi di diffusione del virus in Italia.
Il punto fondamentale, in un’ottica costruttiva, è che quanto non è stato fatto sinora si faccia nelle prossime fasi. La questione centrale è quella dei ‘tamponi’, come raccomandato dall’OMS,
suggerito dai migliori esempi nazionali e da ultimo evidenziato da Angela Merkel: “testing, testing, testing is the way forward”. Nella c.d. Fase 2 è necessario assicurare che i ‘tamponi’ siano effettuati su larga scala, al primo sintomo e a tutti i contatti dei sintomatici -e che sia esteso il numero dei laboratori che possano ‘processarli’. Così come va assicurato che i dispositivi di protezione individuale siano disponibili a tutto il personale sanitario (compresi i medici di base) e al resto della popolazione. Non risulta che la questione sia centrale nel discorso pubblico e nelle comunicazioni governative. Non è dato -ad oggi- sapere quali siano i piani ‘granulari’ del Governo, per intenderci, su tamponi (qual è la capacità?), laboratori, test sierologici e mascherine.
I piani sembrano invece concentrati ancora una volta sulle misure di distanziamento sociale, affidate essenzialmente a cittadini e imprese. Ma il distanziamento sociale, da solo, non basta a scongiurare un’altra impennata dei contagi né, di conseguenza, un altro confinamento con le correlate compressioni di diritti costituzionali, attività economiche e culturali, crescita educativa, salute fisica e mentale. È necessario che lo Stato faccia in pieno la sua parte.

3. Sorvegliare la sorveglianza
L’esecuzione (e di fatto l’interpretazione) delle misure restrittive è stata affidata, in sostanza, alle forze dell’ordine, che hanno svolto il compito con modalità particolarmente aggressive (anche quando non si ravvisava alcuna offesa al bene giuridico tutelato), in un vuoto giurisdizionale.
Non sono stati rari i fermi di cittadini che si recavano all’edicola (attività pur dichiarata essenziale dalle norme restrittive), le multe a chi si recava in ospedale a riprendere la moglie infermiera o passeggiava non distante dal proprio domicilio, e generalmente i casi di ‘interpretazione estensiva’ delle restrizioni della (inalienabile!) libertà personale da parte di coloro cui è stata deputata la ‘sorveglianza’ (anche nei confronti dei sani e di attività che non presentavano alcun rischio di contagio di terzi). Il tutto condito con stigma sociale e con un linguaggio che capovolge l’ordine normativo: si parla di “consentire” libertà che sono costituzionalmente garantite. Non solo: sanzioni per centinaia di Euro, palesemente irrituali, sproporzionate e punitive, vanno a colpire una popolazione già pesantemente afflitta da una perdita di reddito senza precedenti, e che dovrebbe spenderne altre per impugnarle con uno spazio di difesa ridotto.
Come si è già autorevolmente osservato, con il sistema della c.d. autocertificazione si è di fatto richiesto al cittadino di esercitare il proprio diritto di difesa al momento della contestazione, in sostanziale violazione dell’Art. 24 Cost. e delle garanzie procedimentali di legge.
E si è assistito a scene, come la multa di 533 Euro a un rider in bicicletta che lavorava o all’interruzione di una Messa da parte di un poliziotto, francamente intollerabili ma prevedibili quando si affida a forze dell’ordine l’interpretazione e l’esecuzione di norme vaghe e mal redatte.
È auspicabile un generalizzato condono delle sanzioni di Fase 1. Né la fase 2 inizia con i migliori auspici, vista la confusione generata dalle locuzioni “congiunti” e “affetti stabili”, sulla cui interpretazione, e sui relativi rischi di domande invasive, è lecito aspettarsi discutibile fantasia da parte delle diverse pattuglie delle forze dell’ordine.
Da ultimo si vedono elicotteri e droni sorvolare e soffermarsi su giardini privati e cortili condominiali, senza che ne sia chiara la ragione né l’utilizzazione dei dati così conseguiti. Non solo: è allo studio l’utilizzo su larga scala di una app che, ai fini di tracciamento dei contatti e contenimento della diffusione del virus, potrebbe avere accesso a dati personali e/o sensibili, per quanto si sostenga che dovrebbero essere raccolti in forma anonima.
È di fondamentale importanza che, nella Fase 2 e in quelle successive, nella misura in cui sia strettamente necessario limitare i diritti costituzionali, si garantisca la certezza del diritto senza affidarne l’interpretazione, in modo peraltro frammentato, a soggetti attuatori o deputati alla sorveglianza, apprestando strumenti di controllo anche giurisdizionale delle loro attività. E che, tanto queste limitazioni quanto i nuovi meccanismi (anche tecnologici) di sorveglianza, siano attuati nel fermo rispetto dei diritti della persona e del principio di proporzionalità.

4. La Giustizia è un’attività essenziale
Non è dato comprendere perché sia stata “consentita” l’attività di esercizi commerciali con misure di distanziamento tra le persone, e non sia stato fatto altrettanto per le aule di giustizia, oppure perché si sia organizzata la didattica a distanza e non lo si sia fatto – a parte alcune eccezioni legate all’indifferibilità – per le udienze civili (come in Inghilterra). In Germania e in Olanda, ad esempio, non vi è stata una sospensione generalizzata di tutte le udienze e dei termini processuali. Allo stato, in Italia, le udienze e i termini processuali sono generalmente rinviati all’11 maggio 2020.
In altre parole, la Giustizia non è stata considerata un’attività essenziale. Ci auspichiamo che questo non avvenga più nelle prossime fasi, anche ove dovesse ritenersi necessario disporre un nuovo lockdown. Non si tratta soltanto di una questione simbolica o di principio. Non c’è Stato senza giurisdizione.
Di contro, sarebbe ancor più grave che le restrizioni adottate per l’emergenza sanitaria avessero un effetto nefasto sullo svolgimento delle attività processuali con inescusabile compressione del contraddittorio e del diritto alla difesa di cui all’articolo 24 della Costituzione.
Lo svolgimento improvvisato e disorganizzato di udienze, specie in materia penale, che si è avuto in queste settimane, con mezzi telematici di fortuna, contribuisce infatti a dimidiare l’attività giurisdizionale, privandola dei suoi contenuti minimi, e ad affossare il valore costituzionale del giusto processo (art.111) già messo a dura prova da altri provvedimenti di questo Governo.
Ciò senza dimenticare che la vicenda della introduzione del c.d. “processo da remoto” in sede penale (convertita in legge con il DL n°18/20 contestualmente alla approvazione di un Odg della Camera dei Deputati che sostanzialmente ne ha preannunciato la successiva, parziale, abrogazione) – più che la tardiva presa d’atto della ovvia incompatibilità di tale modalità con gli strumenti cognitivi propri del giudice penale, oltre che con i principi di immediatezza e oralità del rito – rappresenta un esempio di schizofrenia legislativa che appare un unicum persino per la reattiva e ondivaga produzione legislativa italiana.
Tradizione che, da quanto si apprende, sarebbe destinata ad arricchirsi di un nuovo capitolo nei prossimi giorni, attraverso l’emanazione, anche qui di dubbia costituzionalità ratione materiae, di un DL ad hoc riguardante le decisioni della Magistratura di sorveglianza con ciò smentendo, nei fatti, la proclamata intenzione di difendere la libertà e la autonomia della giurisdizione.
Dubbi di costituzionalità che, peraltro, sono già stati autorevolmente espressi anche sulle norme che hanno disposto la generalizzata sospensione dei termini di prescrizione e di custodia cautelare, in taluni casi, come in Cassazione, persino di fronte alla richiesta di procedere da parte dell’imputato detenuto.

5. Trasparenza e contradditorio vanno garantiti
Anche sul piano comunicativo l’azione di governo lascia ampi margini di miglioramento. Si è autorevolmente detto che, nella gestione delle pandemie, è cruciale che il governo stabilisca e mantenga la fiducia dei propri cittadini, anche attraverso la piena trasparenza delle proprie azioni. Questa deve declinarsi in una comunicazione assidua e completa dell’andamento epidemiologico, delle proiezioni e degli studi utilizzati, della metodologia dei test (tamponi) effettuati, delle ragioni e dell’eziologia dei decessi, dei piani anche in via di formazione relativi ai test, alle altre misure di diagnosi, protezione e contenimento, delle previsioni e così via. Soprattutto, la comunicazione deve provenire direttamente dal governo, e consentire un’interlocuzione che si presti a soddisfare ogni pertinente domanda di informazione.
E invece la comunicazione in Italia è stata essenzialmente affidata a una conferenza stampa della Protezione Civile e dell’Istituto Superiore di Sanità, in cui alcuni dati sono stati costantemente forniti senza ulteriori spiegazioni (si pensi ad esempio al numero dei decessi o quello dei tamponi) e le risposte alle domande dei giornalisti sono spesso state evasive o ripetitive. Non vi è stata una regolare conferenza stampa del Presidente del Consiglio e del Ministro della Sanità, al contrario di altri Paesi. La comunicazione (peraltro, essenzialmente delle misure restrittive) è stata affidata
a dirette televisive o via Facebook, spesso a tarda notte, senza contraddittorio e senza alcuna possibilità di approfondire le questioni trattate o affrontare le questioni omesse. Su questo sfondo sono proliferate le esternazioni di vari esperti, spesso in disaccordo tra loro (peraltro in relazione a un virus di cui si sa ben poco), e le indiscrezioni sul lavoro di varie commissioni e task force esonerate dallo scrutinio pubblico. Paradossalmente, è lo stesso diritto costituzionale alla salute a essere messo a repentaglio se si abdica alla delicata opera di bilanciamento politico e si delegano le scelte a tecnocrati non politicamente responsabili e sempre a rischio di conflitto di interesse.
In una democrazia liberale gli organi di informazione e la pubblica opinione rivestono un ruolo primario. Non è tollerabile che la comunicazione di piani, studi e misure che rivestono la rilevanza qui discussa sia rimessa a indiscrezioni o dirette Facebook senza contraddittorio, il dibattito si svolga in circoli riservati, assai poco aperti a opinioni critiche, e non sia possibile porre domande pubbliche ai decisori. Lo Stato deve rendere conto (the State must be held accountable). E’ auspicabile che nelle prossime fasi muti la linea comunicativa sin qui adottata.
Caro Presidente, nulla di quanto detto fin qui va letto come mancanza di rispetto. Abbiamo tuttavia voluto aggiungere la nostra voce a quella di molti altri, dai genitori preoccupati per la chiusura ad libitum delle scuole, agli operatori che si occupano di disabili, ai numerosi gruppi anche organizzati di cittadini preoccupati per la sospensione del Referendum Costituzionale e per la compressione degli spazi costituzionali di partecipazione politica, che non hanno trovato finora alcun ascolto. Sappiamo che Lei, da fine giurista, è attento al delicato bilanciamento degli interessi in gioco, compresi i valori costituzionali conquistati a caro prezzo. Nell’ora più buia, ci paiono necessari dialogo e umiltà.

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